Rumorosa, caotica, trafficata più di Napoli.
Dai colori accesi e dalla musica dolce di flauti di bambù e gong dorati.
Mi aspettava a braccia aperte lei: Beijing, la capitale della Cina.
Me la ricordo così, e la proteggo tra i miei viaggi più belli, la meta che scelsi in un pomeriggio di Novembre di due anni fa.
Si sa quanto oggi ci si senta bloccati da stereotipi e sistemi che vorrebbero ingabbiare i nostri sogni. Un lavoro full time, sette compleanni alla settimana, la palestra, la fidanzata o il fidanzato e quattro settimane di ferie l’anno, ma per questi argomenti abbiamo già molte riviste e tutorial che si preoccupano di darci consigli.
Ho accettato con piacere l’invito di Claudio, a raccontarvi una delle mie avventure dall’altra parte del mondo.
Un viaggio che magico e divertente mi ha lasciato alcuni doni preziosi, nel vero senso della parola che ancora oggi restano sotto la mia pelle e legati al mio braccio.
Così presa alla sprovvista dal mio Capo, a un mese dal Natale, ottenni dieci stringatissmi giorni di ferie, dei quali avrei voluto far tesoro.
FU ESATTAMENTE COSÌ.
In ballo la Grande Mela – New York – e pochi soldi, o Beijing dove abitava un mio amico, il quale mi avrebbe ospitato, e il mio budget mi avrebbe permesso di non pensare più all’alloggio.
Finii di corsa il turno e mi precipitai a casa, tra un milione di note vocali piene di eccitazione e di euforia, con colui che ai tempi era il mio “specchio“, e in quanto tale, chi meglio di lui poteva conoscermi e darmi consiglio?
In fondo ci bastava un mappamondo per farci scoppiare di adrenalina e farci volare a cavallo dei nostri aeroplanini di carta in un nanosecondo.
Per quanto fosse affascinato da New York, mi indirizzò verso la meta asiatica.
Lui, Nomade ferrato di quelli che portano i segni sui piedi, e io folle amante dell’arte, intrappolata nella gabbietta del criceto.
Una combo perfetta per pianificare il mio primo timbro sul passaporto.
Era l’ora di cambiare le carte in tavola. Era l’ora di ascoltare quella vicina che molti di voi hanno già sentito qualche volta, quella voce che tutt’oggi mi tiene compagnia in una città del Nord Europa, dove vivo.
Feci il biglietto la sera stessa.
Una settimana dopo sarei partita.
Il mio primo volo in solitaria, fuori dall’Europa.
Il mio passaporto vergine, che profumava di carta nuova, si sarebbe aperto molto presto, sotto gli occhi di forme e colori diversi.
Sapevo poco o niente di Pechino e il mio zaino era pronto a riempirsi di sapori e di occhi nuovi; quasi quanto me.
Il mio unico compagno di viaggio era proprio lui, quello zaino, che non sapevo sarebbe diventato negli anni a seguire, il mio amico, la mia casa mobile, la mia storia.
Venti ore spaccate, non un minuto in più e mi trovai a respirare un aria, che mista allo smog tagliente, aveva un sacco di cose da raccontare.
Niente GoogleMap (per via della Dittatura che ancora oggi schiacciante e consapevole vieta l’accesso ai vari network, controllando un’intera popolazione, attraverso sistemi assoluti e telecamere in ogni angolo della città). Nessun cartello in inglese, non che all’epoca il mio inglese fosse fluente quanto oggi, ma sarei sopravvissuta.
Bensì mi accolse una virtuosa danza di occhi a mandorla che sorridevano e osservavano curiosi.
Beh, questo è quello che accade quando si viaggia. CI SI GUARDA, e da entrambe le parti c’è una cosa sola : curiosità.
Credo che quest’ultima sia uno dei motori più potenti che l’essere umano possa avere, per alcuni aspetti anche pericolosa, ma se utilizzata con lo spirito giusto, la curiosità ci permette di arricchirci tanto, fino alla molecola più piccola che ci compone.
Camminando tra gli “Hutong”, i miei occhi non si saziavano mai: milioni di fermoimmagine che non sarebbero stati mai rimossi dalla memoria stavano entrando alla velocità della luce.
“Eccoci al Lama Temple” dissi tra me e me, pervasa da una sensazione di pace interiore. Senza pensarci due volte, entrai attratta dalla bellezza dalla voglia di vedere uno dei più bei tempi buddisti di Beijing.
L’odore dell’incenso profumava l’aria, mi aveva catapultata tra le pagine di un racconto orientale, così europea, dagli occhi grandi ma mai abbastanza da riempirli a sufficienza. Il silenzio e gli sguardi bassi attirarono la mia attenzione quando, girandomi all’improvviso tra le mura maestose rosse e dorate, apparve lui, Buddha, una gigantesca statua d’oro.
Mi accorsi subito di quanto delicato fosse, quell’attimo di preghiera, che in un certo qual modo avevo disturbato con la mia presenza.
Mi sentivo così occidentale e fuori luogo da non saper proprio dove mettere i piedi quando, un’anziana signora che si trovava dall’altra parte del tempio, mi fece cenno con la mano.
Chiamava proprio me.
Con il sospetto di aver fatto qualcosa di strano, mi diressi verso di lei.
Farfugliando frasi in un incomprensibile cinese, mi donò un piccolo pacchetto di carta velina, chiudendomi la mano. Continuò il suo discorso, guardandomi con la dolcezza che solo gli occhi delle nonne hanno.
Stupita e curiosa, le feci un’offerta, donandole i primi Yuan che avevo in tasca.
Un grande punto interrogativo mi assaliva: “Cosa aveva voluto dirmi?“
Per fortuna, l’amico che si trovava con me e che masticava un po’ di cinese, riuscì a tradurmi quel che aveva compreso: la raccomandazione era di non aprire quel pacchetto fino al mio rientro in Italia…
La signora grata della mia semplice offerta, mi regalò un bellissimo sorriso costellato da pochi denti, ma sincero, VERO.
Mi diressi di fronte alla statua dorata di Buddha e in segno di riconoscenza accesi alcuni incensi, ringraziandolo, per quel magico incontro.
Dopo pochi istanti, voltandomi, incredula mi accorsi che se ne era andata lasciandomi con una curiosità che oggi per la prima volta condivido pubblicamente con voi, oltre a chi questa storia l’ha ascoltata dal vivo.
Nei giorni seguenti visitammo la città, utilizzando ogni tipo di trasporto pubblico, dai Tuk Tuk ai Taxi che in genere preferiscono trasportare solo “local” (bizzarro si, ma ogni posto del Mondo ha le sue usanze e abitudini, e noi Nomadi le rispetteremo!)
Arrivò poi il grande giorno, quello che era destinato a visitare la Grande Muraglia Cinese. Non che un giorno basti, questo lo sappiamo tutti, ma fu sufficiente a poter percorrere a piedi almeno un pezzetto di quella maestosa costruzione che oggi fa parte delle Sette Meraviglie del Mondo Moderno.
Meravigliosa si, ma non così semplice, con le sue salite davvero faticose, per lo meno nel primo tratto, tanto da farti vivere quel cammino come quello della tua vita, scalini di pietra altissimi da lasciarti senza fiato che una volta terminati regalano la bellezza di un paesaggio mozzafiato, un po’ come quando lottiamo con tutte le nostre forze per raggiungere un obiettivo.
Avete capito cosa voglio dire.
Spesso la ricompensa vale davvero la pena, e in quella mattina di Novembre con il sole a picco, su una delle vette del mondo, in ballo c’era una grande ricompensa.
Dopo l’imperdibile Muraglia, arrivò la volta della Città Proibita, il Parco Beihai, il Palazzo d’Estate e dello street food davvero “particolare” (se siete coraggiosi e vi piace il brivido, vi consiglio di passare a vedere il mercato del pesce fritto).
Tutto corredato da divertenti conversazioni in “chinesenglish” (concedetemela!) ognuna conclusa con grasse risate di pancia, perché in fondo anche se siamo dei Nomadi poliglotti, o se l’inglese non è ancora comune nel paese che stiamo visitando, oppure non abbiamo mai avuto modo di studiarlo, il nostro istinto di sopravvivenza sarà tanto forte da guidarci in ogni angolo di questa Terra meravigliosa.
Abbiamo dunque una cosa che spesso sottovalutiamo ma ci accomuna in tutto il resto del Globo: RIDERE!
Ridere non ha lettere o sinogrammi, si può ridere con gli occhi e con la bocca, l’importante è non dimenticarsi di farlo!!!
Questo popolo mi ha insegnato a non dimenticarlo mai.
Mentre “Wonderwall” degli Oasis, che letteralmente significa “Muro delle Meraviglie”, suonava tra le mie orecchie ad un volume tale da impedire di sentire gli annunci dei voli, capii che quei muri, quelli che a volte tiriamo su o che troviamo davanti a noi, andrebbero abbattuti.
Fu proprio durante quello scalo a Parigi, mentre tenevo in mano un triste ma delizioso croissant, che mi accorsi di quanto dolce fosse la vita vista con gli occhi di chi indossa uno zaino.
Almeno una decina di business men, ognuno con una ventiquattrore, tutti impeccabili e grigi, mi osservavano. Avevo i capelli raccolti in una crocchia spettinata, felice di ciò che fossi, di quel poco che avevo ma che in realtà era tutto e, piena di briciole, proprio in quel momento una certezza mi rivestì: non volevo diventare come loro.
Arrivò poi il mio rientro in Italia, quel viaggio mi aveva donato una sensazione di benessere tale che la voglia di rientrare era sempre meno e quella di ripartire di nuovo cresceva prepotente.
Da quel momento a pochi giorni a seguire, la mia vita sarebbe dovuta procedere come da copione, inconsapevole, di ciò che sarebbe accaduto dopo…
Fu così che, da quel primo incontro, con un popolo nuovo dal quale avevo imparato tanto, avevo scoperto dentro di me che viaggiare sarebbe diventato uno dei miei punti fondamentali (tanto che sono ancora in viaggio…)
Quei dieci giorni sono stati accompagnati da importantissime playlist, non riuscirei ad immaginare la mia vita senza le mie colonne sonore e questo vale anche per i miei viaggi, lunghi o corti che siano.
Quelle canzoni che poi riascolti in auto e ti fanno volare lì, di nuovo, in quel posto, nello stesso momento, come una macchina del tempo.
In quel caso, la playlist “Pechino” mi venne regalata proprio da chi mi consigliò la Cina, da chi sono certa, non smetterà mai di viaggiare. Da chi probabilmente sapeva di cosa avrebbero avuto bisogno le mie orecchie.
Come un carillon, questa è una di quelle che mi riportano proprio laggiù, in quel posto magico.
Dedicata a quella Signora.
Vi lascio con “Over the Rainbow” Di Israel Kamakawiwo’ole
“Per vedere ciò che in pochi hanno visto, dovete andare dove in pochi sono andati“
Chiara
^ Il Sulde Bianco (Spirito Bianco) e uno dei due spiriti di Gengis Khan secondo le credenze tradizionali (l’altro e il Sulde Nero), rappresentato dal suo cavallo bianco o giallo, oppure come feroce guerriero che cavalca un destriero, ossia come Gengis stesso. All’interno, il tempio ospita una statua di Gengis Khan (al centro) e di quattro dei suoi uomini su ogni lato (per un totale di nove statue, un numero simbolico nella cultura mongola), vi sono poi un altare dove sono offerti i sacrifici a tali uomini-dei, e tre sulde fatti con criniera di cavallo bianco. Dal sulde centrale si dipartono stringe che legano insieme stoffe azzurre e bianche. I muri sono istoriati con i nomi dei lignaggi mongoli. I cinesi venerano Gengis Khan come dio ancestrale della dinastia Yuan .